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La chiave dell’ascensore

16 novembre – SALA MERCATO
LA CHIAVE DELL’ASCENSORE


Ripresa – Testo di Agota Kristof. Traduzione di Elisabetta Rasy
con Anna Paola Vellaccio
Allestimento e regia di Fabrizio Arcuri
Assistente in scena Edoardo De Piccoli / Assistente alla regia Francesca Zerilli
Cura Giulia Basel / Assistente alla produzione Marilisa D’Amico / Foto di scena Roberta Verzella, Tiziano Ionta / Grafica Antonio Stella

Produzione Florian Metateatro – Centro di produzione Teatrale

Ne “La chiave dell’ascensore” è messo in scena un sacrificio; il racconto, la statica e tutta verbale azione tesa a ristabilire una verità, coincide con una messa a morte. La verità si gioca nello spazio apparentemente ristretto che divide l’io e il tu di una coppia; il gioco del sacrificio è esplicito perché la vittima, ribellandosi, lo esibisce. Anche la scena si mostra per quel che è; non solo un territorio separato, ma addirittura inaccessibile a chi non ha una certa chiave, uno speciale strumento, cioè uno speciale potere. Gran parte di ciò che accade e soprattutto di ciò che conta, accade fuori, altrove: la scena di Agota Kristof è un luogo di reclusione, uno spazio concentrazionario. Dove agiscono, mascherati da piccole situazioni intimiste, ampi cerimoniali di tortura e messa a morte. Alle vittime non resta che una chance, nel claustrofobico spazio che sono condannate ad abitare: far sapere che c’è un’altra versione dei fatti. Non c’è coraggio, virtù, grandezza nel conflitto che oppone la Moglie della Chiave dell’ascensore al Marito, e la mano del cielo che s’incarna nel compiacente medico di regime – del regime coniugale che vige nella stanza rotonda alla quale si può accedere solo con l’ascensore – sta all’abietto gioco delle circostanze. Ciò che salva la scena delle relazioni in atto dal perdersi definitivamente in una musica funebre è, appunto, un unico possibile gesto di coraggio che coincide con un gesto di disperata resistenza: la testimonianza di un’altra verità, la verità della vittima. Elisabetta Rasy (dall’introduzione al testo edito da Einaudi)

Una stanza che gli spettatori sbirciano da una finestra. Avvolta dalle volute della nebbia e dal vento che le muove i capelli…la donna racconta la storia a se stessa, la racconta per l’ennesima volta. Tutto è reale e simbolico allo stesso tempo le luci, i rumori, la voce che le fa eco che le rimbomba nella testa, mentre accetta ogni privazione, accetta di non muoversi più, di non sentire più, di non vedere più, fino a che non arriva la minaccia. Piuttosto la vita ma non la voce. Perdere la voce significa perdere la possibilità di esprimersi più di qualunque altro senso. Allo spettatore non resta che cadere lentamente dentro le maglie di questa tragedia che da favola pian piano svela il suo risvolto fino ad arrivare ad essere baratro, nera testimonianza di tanti soprusi di cui le nostre cronache sono piene. Sotto la superficie della scena che ci si apre dinnanzi c’è qualcosa di invisibile ma minaccioso. Anche dal tono pacato della protagonista, del resto, emerge di tanto in tanto la sua vera condizione. L’amore è anche volontà di possedere l’altro. Quando questo istinto va fuori controllo gli esiti sono nefasti, perché un essere umano non si riduce mai ad un solo ruolo, sarà sempre anche altro rispetto alla parte che riveste in un determinato rapporto sociale (la coppia, ad esempio) e quindi non potrà mai esser totalmente dominato dall’altro. È una lotta che l’oppressore non può vincere, sembra dirci Kristóf, almeno sul piano dell’assoggettamento mentale: il desiderio di libertà è insopprimibile; la Donna, piegata, resa folle, scissa, conserva comunque la volontà di essere un individuo e non cede all’assimilazione. Potranno toglierle la vita, ma non si farà strappare la voce per gridare al mondo la sua condizione. Frasi brevi, una sintassi cruda, dialoghi ridotti all’essenziale, assenza di aggettivi: il fascino di questo testo scritto in francese nel 1977 sta proprio nell’economia di mezzi e nella loro intensità. Nel teatro, luogo dell’incontro per eccellenza, l’autrice trova il mezzo ideale per esprimere il suo messaggio: la speranza è nella parola, nella comunicazione con gli altri. Fabrizio Arcuri, note di regia

Date e orari spettacoli
Sala Mercato – Teatro Nazionale Genova
martedì 16 novembre ore 20:30

Biglietti su https://biglietti.teatronazionalegenova.it/
Intero 16 € – Ridotto Under 30 11 €

Ágota Kristóf, nata nel 1935 a Csikvánd, un villaggio dell’Ungheria nel 1956, in seguito all’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, fugge con il marito e la figlia in Svizzera e si stabilisce a Neuchâtel, dove vivrà fino alla morte. Non perdonerà mai al marito la decisione di allora, presa per paura di essere arrestato dai sovietici, tanto che in una intervista dirà: “Due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera”. Ma dirà anche “Bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno

Anna Paola Vellaccio debutta in teatro a 15 anni in “Paradis” di Philippe Sollers, regia di Gian Marco Montesano per il Florian, Teatro Stabile di Innovazione di Pescara, con il quale da allora collabora costantemente. È stata diretta, tra gli altri, da Claudio Collovà, Walter Manfrè, Ugo Margio, Giorgio Marini, Enrico Frattaroli, Pippo Di Marca, Vincenzo Manna, Roberto Latini, Fabrizio Arcuri, Maurizio Scaparro. Ha recitato inoltre in cortometraggi, tv, cinema (“Il siero della vanità” di Alex Infascelli, “Notizie degli scavi” di Emidio Greco) e radio, partecipando a diversi radiodrammi prodotti da RAI RadioTre.

Fabrizio Arcuri
Fondatore, direttore artistico e regista di tutte le produzioni di Accademia degli artefatti. Co-direttore artistico del Teatro della Tosse di Genova per il triennio 2011 – 2013 e consulente alla programmazione per il 2014/15. Dal 2009 al 2012 cura il festival internazionale PROSPETTIVA per lo Stabile di Torino (Premio Ubu 2011). Dal 2009 è regista del Festival Internazionale delle Letterature di Massenzio. Dal 2006 è direttore artistico del festival SHORTTHEATRE. Ha lavorato come regista assistente di Luca Ronconi dal 2005 al 2008. Premio della critica 2010 con SPARA/TROVA IL TESORO/RIPETI. Nel 2011, Premio Hystrio alla regia. Nel 2012 regista per il Teatro Stabile di Torino di FATZER FRAGMENT, in coproduzione con Volksbune di Berlino. Nel 2014 è stato curatore e regista del progetto del Teatro di Roma, RITRATTO DI UNA CAPITALE. A febbraio 2016 debutta CANDIDE di Mark Ravenhill, ispirato all’opera di Voltaire, di cui cura la regia per Teatro di Roma in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina. Ha curato la direzione artistica e l’allestimento della manifestazione La Festa di Roma per il capodanno 2016/2017 e 2017/2018. Ha collaborato con le istituzioni universitarie, tenendo o partecipando a seminari, del DAMS di Roma, dell’Università dell’Aquila, del DAMS di Torino, dell’Università Roma Uno e Roma Tre. Ha collaborato con Rai Radio3, realizzando alcuni documentari sul teatro.

RASSEGNA STAMPA

così la critica :

“… e’ stupefacente l’analogia tra il testo che abbiamo letto e quanto ascoltiamo nella misura in cui ne è stupefacente la differenza – per la ricchezza e lancinante potenza dei toni e per gli effetti e suggestioni di luci. Il regista Fabrizio Arcuri e l’interprete Anna Paola Vellaccio avevano già lavorato insieme. L’accordo è misterioso, sono un tutt’uno. In un monologo, Nella pietra di Christa Wolf, Vellaccio aveva mantenuto un timbro vocale e ritmico tutto il tempo. Ora, che siamo in un altro Medioevo, nel Medioevo eterno, il tempo viene frantumato: la vera fiaba in quella nebbia è straniata; l’altra fiaba è invece ironica, ora irrisa, ora appassionata, ora urlata – un interminabile urlo doloroso: “La vita, se volete, ma non la voce!”. Franco Cordelli  Il Corriere della Sera 19 ottobre 2017

“… resta profondamente impressa nell’iride degli occhi, l’incandescenza bianca della sagomata quarta parete che per un’ora divide il pubblico dello Spazio Diamante dalla messinscena che il regista Fabrizio Arcuri ha riservato a “La chiave dell’ascensore”, succinta pièce che Agora Kristof ha scritto nel 1977, ora data in consegna a Anna Paola Vellaccio per un a solo scisso tra apologo e diario reclusorio. La prima abbagliante sensazione è quella di un orizzonte boreale, di un panorama niveo e distopico infittito di nebbia, dove incombe di spalle una sagoma femminile provvista di lunga chioma bionda e abito candido, lattescente…Lo spettacolo s’avvantaggia molto d’un soggetto torturato ma liliale, inconsapevole. Merito di un impianto che da preraffaellita tende all’artificiale, all’alieno, all’androide. Con un contributo intenso dell’interprete, che ha in extremis una reazione furiosa, con toni da fantascienza allucinata e visionaria, senza smettere però d’essere umana.” Rodolfo Di Giammarco La Repubblica.it – 26 novembre 2018

“… il testo della Kristóf viene proposto ai Teatri di Vita nell’interpretazione intensa e struggente di Anna Paola Vellaccio, allestimento e regia di Fabrizio Arcuri, Premio della critica 2010 e, nel 2011, Premio Ubu e Premio Hystrio alla regia… Tutta la pièce è giocata sull’intreccio di sonorità, luce e fisicità attorica. Musica e voce spesso si compenetrano, creando un’atmosfera di sospensione trasognata, inquieta e perturbante. In particolare, la vocalità di Anna Paola Vellaccio è di un’intensità che mette i brividi, vira nel giro di un istante dalla narrazione, alla cantilena dolente, al grido straziato, e ricalca con la voce il senso del racconto fino a punte onomatopeiche che sono pura poesia vocale. Colpisce nel segno anche la fisicità intensa e solipsistica della protagonista, che trasmette con potenza tutto il sentire di dolore dato dall’isolamento e dalla castrazione programmatica di ogni espressione del desiderio di evasione e libertà”. Chiara Quinci www.gufetto.press 4 dicembre 2018

Il tragico apologo di Agota Kristof con l’aliena chiusa dentro il maniero di Rodolfo di Giammarco (la Repubblica.it – 26/11/2018) Resta profondamente impressa nell’iride degli occhi, l’incandescenza bianca della sagomata quarta parete che per un’ora divide il pubblico dello Spazio Diamante dalla messinscena che il regista Fabrizio Arcuri ha riservato a “La chiave dell’ascensore” , succinta pièce che Agora Kristof ha scritto nel 1977, ora data in consegna a Anna Paola Vellaccio per un a solo scisso tra apologo e diario reclusorio. La prima abbagliante sensazione è quella di un orizzonte boreale, di un panorama niveo e distopico infittito di nebbia, dove incombe di spalle una sagoma femminile provvista di lunga chioma bionda e abito candido, lattescente. La regia fa sì che lei, l’interprete, nell’avviare il testo col medioevale e fiabesco “C’era una volta una giovane e bella castellana…”, non appaia subito costretta su una sedia a rotelle. Con aria calma, senza mai porgere il volto alla sala, Anna Paola Vellaccio declina la saga della ragazza che, fervida, ospita per poco nel suo maniero un effimero principe, invecchiando e poi morendo in attesa vana d’un suo ritorno. Solo dopo, l’autrice ungherese le riserva toni più prosaici, per l’analogia con la disavventura d’una donna prossima ai tempi nostri, domiciliata col marito in una stanza alta d’un edificio di campagna, il cui unico legame col mondo è un ascensore provvisto di chiave con accesso pari a quello di una cella. All’indomani di uno strano incontro lei si vedrà negato l’uso della chiave, e diverrà segregata, come le donne detenute di tante orride cronache. E le sue patologie da isolamento verranno risolte, grazie alla complicità d’un medico, con progressive mutilazioni dei nervi del corpo: gambe, orecchie, occhi. Ora la donna sì è liberata della sua parrucca da fabliau, e sta su una carrozzina per disabili. Lo spettacolo s’avvantaggia molto d’un soggetto torturato ma liliale, inconsapevole. Merito di un impianto che da preraffaellita tende all’artificiale, all’alieno, all’androide. Con un contributo intenso dell’interprete, che ha in extremis una reazione furiosa, con toni da fantascienza allucinata e visionaria, senza smettere però d’essere umana.
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/11/26/il-tragico-apologo-di-agota-kristof-con-laliena-manieroRoma06.htm

LA CHIAVE DELL’ASCENSORE @ Teatri di vita: quando parola e ascolto liberano dalla violenza Di Chiara Quici | pubblicato il: 04/12/2018 Teatri di Vita porta in scena a Bologna, a pochi giorni dalla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre), LA CHIAVE DELL’ASCENSORE, testo di Agota Kristóf sul tema della violenza domestica e sociale ai danni della donna, qui proposto nell’interpretazione intensa e struggente di Anna Paola Vellaccio, allestimento e regia di Fabrizio Arcuri, Premio della critica 2010 e, nel 2011, Premio Ubu e Premio Hystrio alla regia. Una coproduzione Florian Metateatro / Accademia degli Artefatti. Agota Kristóf, nata a Csikvánd (Ungheria) nel 1935, fu costretta a fuggire in Svizzera nel ‘56 in seguito al soffocamento della rivolta popolare contro l’invasione sovietica, e lì ha dedicato la sua vita e la sua penna al racconto nudo e crudo, mai velato, del male della società e della voglia di non arrendersi: «Bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno» (A. Kristóf, L’analfabeta. Racconto autobiografico, 2005). La chiave dell’ascensore (1977) è un racconto di violenza domestica e degli esiti estremi della sopraffazione fisica e psicologica quando amore e rispetto, in un’escalation dolente e tragica, cedono il passo al bisogno di possesso dell’altro. Protagonista una donna ridotta all’isolamento dal marito, prigioniera in una rocca lontana dalla quale l’unica via di fuga è un ascensore, di cui lui solo possiede la chiave. Nella bramosia di controllo totale, con l’aiuto di un medico compiacente, la sottopone a una serie di mutilazioni fisiche e sensoriali progressive, togliendole tutto ma mai, fino all’ultimo, la forza di gridare il suo dolore e la sua storia al mondo. Ed è questo il messaggio profondo del testo: che la voce di chi è vittima di violenza è inarrestabile, anche quando ormai sembra che tutto sia perduto. La denuncia, l’apertura verso il fuori, la comunicazione dei soprusi sono l’arma più potente, sempre, per uscire dalla morsa della violenza. Tutta la pièce è giocata sull’intreccio di sonorità, luce e fisicità attorica. Musica e voce spesso si compenetrano, creando un’atmosfera di sospensione trasognata, inquieta e perturbante. In particolare, la vocalità di Anna Paola Vellaccio è di un’intensità che mette i brividi, vira nel giro di un istante dalla narrazione, alla cantilena dolente, al grido straziato, e ricalca con la voce il senso del racconto fino a punte onomatopeiche che sono pura poesia vocale. Colpisce nel segno anche la fisicità intensa e solipsistica della protagonista, che trasmette con potenza tutto il sentire di dolore dato dall’isolamento e dalla castrazione programmatica di ogni espressione del desiderio di evasione e libertà. Anche la scenografia contribuisce a evocare con forza questa condizione di isolamento forzato e di estraniamento dal mondo: lo spazio scenico non è altro che un muro di luce privo di profondità, contro il quale si staglia, solitaria e dolente, la figura della protagonista. Pochi elementi fanno la loro comparsa graduale in scena (un braccio maschile che si sporge dalle quinte, un mazzo di fiori, una siringa), per poi subito abbandonarla, a eccezione di una sedia a rotelle, che resta fino alla fine e assurge al ruolo di memento. L’intero spettacolo contribuisce a creare un continuo gioco di contrapposizioni tra spazio del dentro, la rocca-prigione, e spazio del fuori, il bosco e la città, abitato anche dallo stesso spettatore. Avvolto in una nebbia che fin dall’inizio lo chiama a relazionarsi con il dentro ben più che come mero osservatore, è sottoposto allo sguardo e al richiamo supplicante della donna, che lo guarda come si guarderebbe da una finestra a un mondo bramato ma irraggiungibile. Al suo corpo, forse, ma non certo alle sue urla strazianti di denuncia, che trapassano lo spazio e lo spettatore, chiamandolo a prenderle su di sé, a esserne testimone. Il grande valore dello spettacolo, oltre che nella indubbia qualità artistica, sta anche nella sua capacità di manifestare ciò che normalmente resta nell’ombra, ovvero la violenza nascosta nell’intimità delle mura domestiche. Grazie all’iperbole della mutilazione, riesce a tradurre con potenza e svelare i meccanismi perversi, sottili e facilmente invisibili di quella violenza che mira a distruggere ogni forma di sentire della vittima, per annullarla e renderla succube. Infine, con il rivolgersi della protagonista al fuori e allo spettatore, ci ricorda anche il nostro ruolo come collettività: perché uscire dalla violenza è possibile solo comunicandola, ma sempre nella misura in cui il grido di aiuto della vittima trova un orecchio pronto ad ascoltarlo e la sua mano tesa un’altra mano d’aiuto pronta ad afferrarla.
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